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Il primo giro di lancette, le prime dodici ore da quando è avvenuto un crimine sono quelle più delicate per gli investigatori. Sono le ore in cui si devono scartare le prime ipotesi e, contemporaneamente, valutare quelle che possono portare alla soluzione del caso.
Vediamo allora a dodici ore dall’attentato alla scuola Morvillo di Brindisi su quale (poche) certezze possono contare gli inquirenti e quali (tanti) dubbi rimangono sul tappeto.
Bisogna partire dallo studio del movente, dalla sua individuazione per risalire ai responsabili.
Trattandosi di un fatto nuovo, una “prima assoluta” in terra di Puglia per dirla con un navigato investigatore della polizia, in queste ore si evita di sposare convintamente una pista rispetto ad un’altra. Polizia e Carabinieri, attraverso i loro migliori uomini di Sco (Servizio centrale operativo) e Ros (Raggruppamento operativo speciale), stanno seguendo in parallelo diversi dossier.
Il primo porta dritto alla criminalità pugliese, a chi a Brindisi e dintorni tiene le redini del malaffare. Di sicuro c’è la mancanza di segnali o di un escalation che avrebbe potuto far supporre il salto di qualità di stamattina. Nessuna traccia nelle carte dell’Antimafia, zero assoluto tra le “veline” dei servizi segreti.
Il nostro apparato di intelligence, gli 007 per capirci, non aveva raccolto alcuna allerta. E la tradizione dei nostri apparati di prevenzione ci dice che, anche solo un ipotetico pericolo, viene sempre segnalato a livello centrale. Non è stato questo il caso. La verità, dunque, è che nessuno si aspettava un atto ostile della criminalità o di chiunque altro nei confronti della società civile: nessuno, dai servizi segreti, aveva messo in guardia le istituzioni sul territorio né tantomeno era stata allertata la commissione parlamentare antimafia.
Lo ha detto chiaramente Alberto Maritati, già pubblico ministero in terra di Puglia e attuale senatore componente dell’Antimafia: “Stento a credere che possa essere stata la mafia a compiere l’attentato di Brindisi perché a noi componenti della Commissione antimafia non risultava alcun allarme o preallarme su rischi del genere”. Lo stesso Maritati ha notato: “Nemmeno in Medio Oriente, nemmeno in Palestina, che pure sono territori travagliatissimi, si è arrivati a colpire le scuole. Per questo mi viene anche in mente che si possa trattare di un attentato non voluto, di un progetto criminale andato oltre l’obiettivo prefissato”.
In queste prime, convulse ore sono stati rimessi in fila gli “avvenimenti” degli ultimi mesi sia sul fronte giudiziario sia su quello delle dinamiche interne alla malavita. Una sorta di cronologia necessaria per avere un quadro di riferimento.
L’attenzione si è focalizzata su Mesagne, su quanto accaduto nelle scorse settimane.
In particolare sull’attentato a Fabio Marini, presidente dell’associazione antiracket del posto, all’incendio della sua auto il 4 maggio.
Cinque giorni dopo arrivò la risposta: 16 arresti proprio a Mesagne con l’operazione battezzata “Die Hard” (Duro a morire) dal nome del film con Bruce Willis. Arresti contro esponenti criminali della zona, finiti in carcere per associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione consumata e tentata, porto e detenzione illegale di arma da sparo, danneggiamento aggravato e incendio aggravato. L’attentato alla “Morvillo”, in questa chiave, potrebbe essere una vendetta. Oppure un messaggio trasversale: da qui lo studio di chi frequenta la scuola alla ricerca di eventuali connessioni con i fatti giudiziari più o meno recenti.
L’attentato, in breve, potrebbe essere opera non di un gruppo criminale ma solo di un parte. Le parole del procuratore di Lecce, Cataldo Motta, offrono in questo senso una riflessione importante quando afferma: ”Potrebbe non essere stata un’organizzazione mafiosa. In un momento in cui le organizzazioni mafiose locali sono alla ricerca di un consenso sociale, sarebbe un atto in controtendenza perché questo sicuramente aliena ogni simpatia nei confronti di chi lo ha commesso. Bisogna comunque chiedersi cui prodest, a chi interessa e se ne avvantaggia”.
Oramai archiviata la strada di una vendetta personale, oltre al privilegiato movente mafioso non viene accantonato quello che porta all’ambito anarco-insurrezionalista mentre è pressoché scartato quello puramente terroristico di qualsiasi matrice (interna o estera). Contro l’ipotesi anarchica giocano molti fattori: la scelta dell’obiettivo (colpire una scuola, studenti in particolare, che non rappresentano una minaccia né dei “nemici”) innanzitutto e poi la mancanza di una rivendicazione.
Per non lasciare nulla di inesplorato, però, gli investigatori della Digos locale stanno rileggendo i movimenti nell’area dell’antagonismo, gli eventuali contatti con altri esponenti in Italia e all’estero (in particolare greci).
Accanto al lavoro di analisi a tavolino e sul territorio, è fondamentale fissare al più presto dei punti fermi sul fronte della ricostruzione tecnica dell’attentato.
Per questo sono stati inviati a Brindisi gli esperti più affidabili della Scientifica, alcuni dei quali hanno trascorsi professionali nelle stragi di vent’anni fa. La principale domanda alla quale dovranno rispondere è: voleva una strage oppure l’attentato ha dispiegato effetti che sono andati oltre quelli che ci si era prefissati?
Per rispondere il primo quesito da risolvere è legato all’ordigno: bombole di gas innescate da un timer. Già, ma il timer (che pare indicasse le 7:55) era a sua volta legato a un comando a distanza?
Non è secondario, anzi. Da questa risposta si capirà il livello degli attentatori: basso se si sono affidati a un timer, elevato nel caso di un telecomando. Si dovrà capire dove era stato lasciato l’ordigno: in un cassonetto (che sarebbe stato spostato dal luogo dove solitamente si trovava) o sul muretto all’aperto accanto alla scuola? Gli esperti della Scientifica sono così affiancati dagli investigatori tradizionali che dovranno ricostruire attraverso qualsiasi mezzo (testimonianze, studio di registrazioni di telecamere della zona) il quadro intorno alla scuola Morvillo. E, se venisse accertato l’uso del telecomando, partirà anche una caccia telematica con il controllo dei cellulari che sono finiti nelle celle telefoniche della zona nelle ore precedenti lo scoppio.
Lo chiamano metodo Falcone, gli investigatori. E’ quello che lascia poco o nessuno spazio alle ipotesi, che non si lascia suggestionare da scenari suggestivi ma procede rigorosamente per gradi escludendo le ipotesi sulla base dei riscontri. E’ il metodo che ha sempre applicato Antonio Manganelli, che di Falcone fu uno dei più vicini collaboratori. Ed è il metodo che ha raccomandato di usare per i fatti di Brindisi.